Accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Sono i quattro verbi che Papa Francesco ci ha indicato nella Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2018 e che, declinati tutti assieme, costituiscono un programma sociale completo. Un programma che c’interpella nel profondo e rappresenta un mandato inderogabile per noi come Chiesa, e per chi, come noi, ambisce non solo a stare vicino a chi è momentaneamente in una situazione di fragilità o disagio, ma vuole comunque riconoscere in ogni persona le capacità e i talenti di cui è portatrice. A ciò si lega il desiderio di mantenere una società e una comunità umane e accoglienti, dove le differenze possano costituire un reciproco arricchimento, e le difficoltà essere una sfida per riuscire a farcela assieme. Il Papa nel messaggio del 2019 per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato ci ha chiarito – a partire dal titolo “Non si tratta solo di migranti” – che questi quattro verbi non rivestono un’importanza solo per i migranti e i rifugiati, ma costituiscono un atteggiamento e una capacità che dovremmo avere per chiunque abbiamo di fronte – e indipendentemente dal luogo in cui sia nato -, nel momento in cui lo riconosciamo semplicemente come una persona in difficoltà e nostro prossimo. A volte pare che in questo Paese, specie negli ultimi anni, si sia rimasti un po’ fermi. A volte non riusciamo neanche a dare compimento ai primi due verbi indicati dal Papa: accogliere e proteggere. Occorre, a mio avviso, non avere timore di ribadire che ogni vita è sacra e, se in pericolo, va salvata sempre, “senza se e senza ma”. È doveroso realizzare una condivisione delle responsabilità tra tutti i Paesi europei, che faccia sì che i compiti non ricadano solo sui Paesi di primo arrivo: questo obiettivo va perseguito in sede politica, e mai può portare al rifiuto del soccorso e della prima accoglienza di chi è in pericolo. Tuttavia, fermarsi a questi due verbi – accogliere e proteggere – senza portare avanti in contemporanea e da subito anche gli altri due, ovvero promuovere e integrare, non ci porta lontano. Perché la tutela immediata della vita è cosa ben diversa da dare la possibilità di ricostruirsi una nuova vita nel Paese di asilo. Per questo la contrapposizione “porti chiusi – porti aperti” è un falso dilemma: si tratta piuttosto di capire cosa accade a queste persone una volta arrivate in Italia. È, infatti, proprio il dare seguito al promuovere e all’integrare che rende possibile realizzare il contributo più significativo alla costruzione di un Paese capace di riconoscere e valorizzare le differenze, affermando pari diritti e pari dignità. Prima che giuridica oeconomica, la questione migratoria è una questione di verità, rispetto e dignità.Occorre riallargare lo sguardo e aiutare tutti a capire perché tanta gente sia costretta afuggire in condizioni così tragiche, e cosa accade loro una volta arrivati in Europa.Il vero problema oggi non è il numero dei migranti, che negli ultimi anni non cresce più, ma la “cattiva accoglienza”, che fornisce sì un tetto e del cibo, ma solo quelli, senza favorire l’incontro con il territorio e senza prevedere almeno una qualche forma d’integrazione, come ad esempio corsi di lingua, corsi professionali ecc. In tal modo, all’uscita da questa accoglienza “povera”, i migranti, privi di strumenti per orientarsi nella società, vengono di fatto sospinti verso la marginalità e l’irregolarità, che alimentano la paura e l’ostilità da parte di molti cittadini italiani.
Il vero problema è la grande quantità di persone presenti nel nostro Paese senza titolo di soggiorno (si stima siano fra le 600mila e le 700mila), o con un titolo di soggiorno che però non possono più rinnovare anche se hanno, nel frattempo, trovato un lavoro. Persone che non sanno dove andare e cosa fare, diventando così facile preda dello sfruttamento e della criminalità. E, purtroppo, gli ultimi interventi legislativi non sembrano sufficienti a ridurre tale cifra.
Come Chiesa auspichiamo che si possa trovare presto una soluzione più appropriata e più equa, tenendo conto delle convenzioni internazionali, del rispetto dei diritti umani e delle chiare indicazioni date dal Presidente della Repubblica. Ma, soprattutto, crediamo nella necessità di ridare al nostro Paese un sistema di accoglienza integrato e diffuso, adeguato alle sfide che abbiamo davanti: non devono esistere parcheggi o ghetti.
Auspichiamo, inoltre, percorsi più agevoli di accesso alla cittadinanza, soprattutto per quei minori nati da genitori stranieri in Italia, che frequentano le nostre scuole e abitano le nostre città, già italiani di fatto ma ancora privi degli stessi diritti e doveri dei loro coetanei. Come ancora ci ha ricordato Papa Francesco, l’accesso alla cittadinanza può favorire il percorso di integrazione di un Paese. “L’integrazione, che non è un’assimilazione che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale (…) è un processo prolungato che mira a formare società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini. Tale processo può essere accelerato attraverso l’offerta di cittadinanza (…) e percorsi di regolarizzazione straordinaria per migranti che possano vantare una lunga permanenza nel Paese” (Papa Francesco, messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018).
Ed ecco, allora, che una giornata come questa diventa segno. Una giornata in cui – Stato e Chiesa, insieme – proviamo a inquadrare due aspetti sostanziali: da un lato, sottolineiamo la ricchezza culturale e religiosa che contraddistingue il nostro Paese; dall’altro, proviamo ad ascoltare e a dare risalto alle esperienze positive che hanno saputo accompagnare i migranti in una maniera non assistenziale, così da metterli in grado di dare il loro contributo alla crescita della società dove vivono.
L’augurio che mi sento di formulare è per un lungo percorso di scambio e confronto in cui lo Stato e la Chiesa, nel reciproco rispetto di diritti, doveri e competenze, possano sempre più accompagnarsi e stimolarsi a vicenda.