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Pace

Per la pace. Le risorse della diplomazia umanitaria

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Pubblichiamo il testo della Lectio magistralis “Per la pace. Le risorse della diplomazia umanitaria” tenuta il 29 aprile 2024, presso il Polo di Gorizia, dal Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, in occasione dei 50 anni del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, nel Centenario dell’Università degli Studi di Trieste.  

 

Premessa
Ringrazio di cuore di questa opportunità. Parlare è sempre un modo per approfondire, capire meglio, cercare nuove risposte a sfide che cambiano continuamente. Poterlo fare da questa città che porta le cicatrici della guerra, della divisione e allo stesso tempo anche la consapevolezza che la conoscenza supera tutti i muri. Le frontiere non sono mai ermetiche, ma porose, attraversate come sono da una fraternità che le supera, perché questa non può conoscere muri. L’Università poi è proprio per sua natura indispensabile strumento per capire nel profondo, per superare i muri andando alle cause profonde, quelle che poi possono unire, se risolte. Non c’è pace senza questa comprensione. Qui avete sempre imparato a parlare tante lingue, indispensabili per conoscersi per davvero. Occorre preparare la pace, perché altrimenti non si prepara che la guerra e questa porta alla guerra, non alla pace. C’è bisogno di preparare le nostre persone alla pace, altrimenti non la sappiamo cercare. Tra le preparazioni della pace c’è senz’altro anche la giustizia e quella riparazione che è il perdono e un incontro che sani le ferite profonde, rimuova l’odio, disarmi le mani e i cuori. Infine una considerazione sull’importanza della diplomazia. Ne abbiamo un enorme bisogno. Un diplomatico cercherà sempre di trovare una via di uscita ai problemi, non si arrende, perché è il suo mestiere, ma anche perché c’è sempre una via di uscita. La politica deve ascoltare i diplomatici e voi farlo come umanitari, perché solo se c’è una visione alta e una conoscenza profonda la diplomazia può capire le situazioni e quindi anche le soluzioni. L’umanitario svolge anche una grande opera di diplomazia, che non è parallela, ma di collaborazione. Questa è stata la “formula italiana” come disse Boutros Boutros Ghali in occasione della firma degli Accordi di pace per il Mozambico nel 1992, capaci di usare l’istituzionale (il governo italiano e anche gli osservatori inclusi nel negoziato successivamente per una migliore applicazione dello stesso) e il non governativo (la Comunità di Sant’Egidio), il formale l’informale, in un’alleanza virtuosa. Vi auguro di diventare diplomatici pieni di umanità, di professionalità. Perché sappiamo fare funzionare le istituzioni, specie quelle sovranazionali, ma anche valorizzare il ruolo della diplomazia umanitaria. Preparare la pace significa anche le difese di questa, compresa la stessa difesa, che però è dentro il mantenimento della pace e non l’erede del Ministero della Guerra! Questa è ripudiata e non rimettere in discussione il ripudio vuol dire cercare gli strumenti indispensabili internazionali, multilaterali per i quali dobbiamo interrogarci se serve perdere sovranità o per rinnovarli e renderli efficaci. Tra questi anche l’Europa. È possibile non avere una politica estera unita e di conseguenza una Difesa e dei Servizi di Sicurezza unici, centrali e locali, ma unitari?  Tutto può cambiare, ma per cambiare dobbiamo aspettare la tempesta della guerra che, purtroppo e a che prezzo, costringe a decisioni nuove? Non possiamo cambiare consapevolmente evitando le tragedie militari?

La pace è un’invenzione
Scrive Henry Maine a metà del 1800: “la guerra appare vecchia come l’umanità mentre la pace è un’invenzione moderna”. Malgrado le visioni profetiche delle quali è piena la Bibbia, che hanno ispirato tanti testimoni della fede, teologi e anche filosofi di ogni periodo, per secoli la pace è sembrata soltanto una parentesi tra due guerre, mentre queste ultime erano considerate la triste e ineluttabile realtà della vita umana. La pace era una tregua. Anche uno dei documenti principali del Concilio Vaticano II, iniziato dobbiamo ricordarlo solo 17 anni dopo la fine della guerra e che ne riportava con vivezza gli orrori e le speranze, parlava della pace come una tregua. “Qualunque cosa si debba pensare di questo metodo dissuasivo, si convincano gli uomini che la corsa agli armamenti, alla quale si rivolgono molte nazioni, non è una via sicura per conservare saldamente la pace, né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. Le cause di guerra, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. E mentre si spendono enormi ricchezze per la preparazione di armi sempre nuove, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente. Anziché guarire veramente, nel profondo, i dissensi tra i popoli, si finisce per contagiare anche altre parti del mondo. Nuove strade converranno cercare partendo dalla riforma degli spiriti, perché possa essere rimosso questo scandalo e al mondo, liberato dall’ansietà che l’opprime, possa essere restituita una pace vera. È necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi. Ammoniti dalle calamità che il genere umano ha rese possibili, cerchiamo di approfittare della tregua di cui ora godiamo e che è stata a noi concessa dall’alto, per prendere maggiormente coscienza della nostra responsabilità e trovare delle vie per comporre in maniera più degna dell’uomo le nostre controversie. La Provvidenza divina esige da noi con insistenza che liberiamo noi stessi dall’antica schiavitù della guerra” (GS 81). Mi sembra un ammonimento così vero, drammaticamente, ancora oggi, con il rammarico o forse sarebbe più giusto il peccato per tante occasioni perdute per farlo.
In altre parole, la guerra veniva pensata come un normale modo di vivere e come la prassi ordinaria delle relazioni tra popoli, nazioni e imperi. Solo molto tardi, verso la metà del XIX secolo e più in particolare con l’inizio del XX, si è iniziato a parlare di pace come realtà giuridica stabile e come modalità di rapporto tra poteri. È significativo considerare che si tratta dello stesso periodo in cui nasce anche il concetto di “umanitario”: l’idea cioè che occorra umanizzare la guerra, diminuire per quanto possibile la violenza e considerare la vita umana come qualcosa da difendere anche mediante una nuova concezione del diritto in ambito internazionale. È noto che la Chiesa ha sempre difeso – per quanto possibile – il concetto della sacralità della vita, intervenendo anche in tempi antichi o durante il Medioevo, come dimostrano ad esempio la norma dell’asilo e in generale ogni forma di protezione offerta dalle autorità ecclesiastiche. La testimonianza più luminosa di tale tradizione sono la vita e l’insegnamento di Francesco d’Assisi. Successivamente possiamo citare, tra gli altri, gli esempi di Erasmo da Rotterdam che critica la violenza religiosa e quello di Bartolomeo de Las Casas che difende gli indigeni in America da violenza e schiavitù. Nel Seicento, quaccheri e mennoniti iniziano a immaginare società non violente, anche se pur sempre in ambito religioso e separandosi dal resto della società. Tuttavia tutte queste innovazioni non erano ancora divenute patrimonio del diritto consuetudinario né di quello elaborato progressivamente dalle nazioni o dagli imperi.
È con il XIX secolo che iniziano ad essere immaginate forme di difesa della vita nella vita civile e anche in guerra, con i primi principi di diritto internazionale. La terribile mortalità della guerra di Crimea (1853-56) aveva già molto colpito le opinioni pubbliche inglese e francese, tenendo presente che ciò corrispose alla nascita della fotografia e alla conseguente pubblicazione di immagini sui giornali dell’epoca. Negli Stati Uniti quasi contemporaneamente il Paese restò ammutolito davanti alla terribile carneficina della guerra di secessione (1861-65) che si stima abbia prodotto 700.000 morti e che diede la spinta decisiva per la abolizione della schiavitù. Nella seconda metà del XIX secolo nacque il comitato internazionale della Croce Rossa di Ginevra (su iniziativa di Henri Dunant rimasto sconvolto da ciò che aveva visto a Solferino nel 1859) che darà vita ad una imitazione che si trasmette a livello globale. Pochi anni dopo si formano le prime organizzazioni umanitarie, sorte a ridosso della prima guerra mondiale. Un’eccezione della fine secolo precedente è la Pax Perpetua di Kant che sarà molto ripresa nel secolo successivo, un progetto che deve molto allo spirito antischiavista e filantropico dell’Illuminismo e che rappresenta una forma iniziale di proto-pacifismo umanitario.
In definitiva si può dire che dottrina giuridica sulla pace e diritto internazionale umanitario nascono assieme. Da quel momento si può parlare di “diplomazia della speranza” cioè della possibilità della pace mediante il principio dell’inviolabilità della vita, dell’antischiavismo, della non-violenza e dell’antirazzismo nascente. Difesa della vita e pace sono connesse. Tutto il diritto umanitario, che viene codificato dalle convenzioni di Ginevra fino alla corte penale internazionale, deriva da quel periodo: all’inizio del XX secolo sono numerosissimi gli autori che immaginano la pace universale e quelli che iniziano a codificare il diritto umanitario sotto i suoi vari aspetti. Entrambi sono messi a tacere dalla grande guerra, della quale ricordo tuttavia la tregua spontanea del Natale del 1914 e del 1915, che fece scandalo nei circoli patriottici ma rivelò il senso cristiano radicato nel cuore dei popoli europei. Gli sforzi per un discorso di pace e umanitario riprendono subito dopo il conflitto e i loro sogni si concretizzano con la nascita Società delle Nazioni: è il punto di arrivo di un multilateralismo nascente, assieme a tante altre iniziative, tra le quali giova ricordare il passaporto Nansen (che oggi non esiste mentre sarebbe molto utile). Il passaporto per i rifugiati e gli apolidi fu utilizzato subito dopo la grande guerra per le varie crisi di profughi (pensiamo solo alla strage degli armeni e allo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia ad es.). Ludwik Lejzer Zamenhof (1859-1917), inventore della lingua universale dell’esperanto convinto che le divisioni umane e le guerre avessero come causa principale la diversità linguistica, propose una lingua unica. Con la seconda guerra mondiale il mondo dell’umanitario e della pace si deve confrontare con l’indicibile: l’abisso della Shoà che porta ad una viva coscienza dell’assurdità della guerra. È la coscienza del never again – del mai più la guerra – che sarà l’eredità di un’intera generazione e sarà il grido di Paolo VI all’ONU:  “Questo messaggio viene dalla Nostra esperienza storica; Noi, quali ‘esperti in umanità’, sentiamo di fare Nostra la voce dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero rinnovarle; e di altri vivi ancora, che avanzano nuovi e fidenti, i giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità. E facciamo Nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso”. […] Non gli uni contro gli altri, non più, non mai! […] L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità. […] Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!  […] Ma voi siete ancora in principio: arriverà mai il mondo a cambiare la mentalità particolaristica e bellicosa, che finora ha tessuto tanta parte della sua storia? È difficile prevedere; ma è facile affermare che alla nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi; e la prima è quella del disarmo. Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno. Le armi, quelle terribili. specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. Finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo; ma voi, coraggiosi e valenti quali siete, state studiando come garantire la sicurezza della vita internazionale senza ricorso alle armi: questo è nobilissimo scopo, questo i Popoli attendono da voi, questo si deve ottenere! Cresca la fiducia unanime in questa Istituzione, cresca la sua autorità; e lo scopo, è sperabile, sarà raggiunto. […] Dicendo queste parole Ci accorgiamo di far eco ad un altro principio costitutivo di questo Organismo, cioè il suo vertice positivo: non solo qui si lavora per scongiurare i conflitti fra gli Stati, ma si lavora altresì con fratellanza per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri. Voi non vi contentate di facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni; ma fate un passo molto più avanti, al quale Noi diamo la Nostra lode e il Nostro appoggio: voi promovete la collaborazione fraterna dei Popoli”.
Dal secondo dopoguerra per il mondo umanitario e della non-violenza (obiettori di coscienza e antimilitaristi), si fa strada l’idea della totale abolizione della guerra e non solo dell’attenuazione dei suoi effetti o della sua umanizzazione com’era stato fino ad allora. Nel ripudio costituzionale della guerra c’è proprio questa convinzione. Lo aveva chiesto Sturzo, dopo la Prima guerra mondiale, Mazzolari, come lo stesso Paolo VI: “Non è utopia, è progresso, oggi più che mai reclamato dall’evoluzione della civiltà, e dalla spada di Damocle d’un terrore sempre più grave e sempre più possibile, che le pende sul capo. Come la civiltà è riuscita a bandire almeno in linea di principio la schiavitù, l’analfabetismo, le epidemie, le caste sociali . . .. malanni cioè inveterati e tollerati come fossero inevitabili e insiti nella triste e tragica convivenza umana, così bisogna riuscire a bandire la guerra. la buona creanza dell’umanità che lo esige. È il tremendo e crescente pericolo d’una conflagrazione mondiale che lo impone”.

La guerra strumento obsoleto
Nel contempo la guerra stessa è cambiata e con essa la mentalità che la accompagna. Dopo la Seconda guerra mondiale e con le guerre di liberazione anti-coloniali, la guerra assume due nuovi aspetti: il rischio del conflitto nucleare tra le due superpotenze e la proliferazione dei conflitti irregolari (oggi chiamati ibridi) promossi da ribelli, milizie o terroristi. È la situazione che ci ritroviamo ancora oggi. Non è un caso che lo stesso jihadismo islamista utilizzi la lotta al colonialismo per giustificare la propria battaglia, inserendoli a pieno titolo nella sua narrazione. Nella terminologia militante dei ribelli e dei terroristi è iscritta la volontà di contrastare il – secondo loro ‑ sempre rinascente spirito neo-coloniale che spinge l’Occidente a voler controllare il mondo. La vecchia terminologia di origine comunista rivive oggi nella sua versione antagonista e anti occidentale. La manipolazione e il riutilizzo sempre aggiornato della vicenda anti-coloniale non è soltanto una prerogativa islamista: è aumentata con la guerra in Ucraina e viene usata dal presidente Putin; è utilizzata dal recente neo-ottomanesimo del presidente Erdogan per rivendicare – da Sarajevo a Mossul – gli antichi territori dell’impero persi dopo la prima guerra mondiale ma è utilizzata anche dalla Cina per lamentare l’egemonia occidentale sull’economia finanziaria. Ritroviamo anche segni di tale vis polemica in certi discorsi di leader africani o asiatici, spesso fatti ad uso interno e non sprovvisti di accenti molto severi per l’Occidente. Per i popoli arabi il colonialismo resta il principale criterio della disputa con Israele. Come aggravante, in questi ultimi 15-20 anni le operazioni militari occidentali ed internazionali in genere, non hanno dato buona prova di sé, salvo eccezioni. Le ripetute guerre in Iraq ed ora Siria non solo non hanno risolto nulla ma hanno peggiorato la situazione, che si è trasformata in numerosi crogioli di terrorismo. Lo stesso si può dire per l’Afghanistan, alla fine abbandonato ai talebani. Per gli Stati Uniti il campanello d’allarme era già suonato con la guerra del Vietnam che la superpotenza militare americana non era riuscita a vincere, provocando oltre Atlantico un vero trauma nazionale (oltre che alla nascita di un forte movimento pacifista, che rinasce oggi con il black lives matter e la contestazione nelle università). Lo stesso si può dire per gli eventi in Iran, dalla rivoluzione islamica del 1979. L’Occidente non vince più una guerra da tempo come d’altronde nessuno, dimostrando così la tesi che – almeno negli ultimi due decenni – la guerra appare per quello che è: uno strumento obsoleto che non raggiunge gli obiettivi che si è data anche quando viene fatta in nome della pace o dei diritti umani. Al di là delle ragioni etiche e politiche per un suo ripudio, che pure sono essenziali, si può constatare un dato fattuale: le guerre sono inutili o addirittura peggiorano la situazione. Nessuno più riesce a vincerle, a parte qualche successo tattico parziale. La guerra in corso in Ucraina tende a perennizzarsi in un lungo conflitto di attrito senza vincitori né vinti; quella di Gaza non darà sicurezza a Israele né uno stato ai palestinesi. È venuta l’ora di prendere consapevolezza di tale dato e concentrarsi sulla creazione di nuovi strumenti per mantenere l’ordine internazionale.

Ingerenza umanitaria?
L’ingerenza umanitaria fatta mediante le operazioni militari non ha dato risultati probanti, anzi spesso ha tradito la ragione stessa che invocava. Esistono a tale livello complessi aspetti politici e di legittimità dello strumento: è una questione aperta alle Nazioni Unite sul quando e come è lecito e legittimo intervenire. La tesi dell’“ingerenza umanitaria” – estensione dei valori democratici sulla base del rispetto dei diritti dell’uomo –, assieme alla sua versione edulcorata di “responsabilità di proteggere”, si è rivelata fallace, anche perché di difficile applicazione. La necessità di essere legittimata dal diritto internazionale si scontra con la mancanza di unanimità nei fori internazionali. La moltiplicazione delle crisi, la circolazione dell’informazione che rende intollerabile ogni passività almeno in Occidente, la frequenza dei fallimenti degli interventi, la riluttanza a fornire risorse militari nel quadro delle Nazioni Unite: sono altrettanti elementi contraddittori di un dibattito ancora aperto. Invocare un nuovo regime di tutela internazionale o delle Nazioni Unite su territori incapaci di auto-amministrarsi nel rispetto dei diritti, espone all’accusa di voler reinventare una forma di colonialismo. Sconsigliare la tenuta di elezioni premature che consacrerebbero il monopolio di una fazione o creerebbero le condizioni per il conflitto, sembra tradire il politicamente corretto. Con la Conferenza di Roma del 1998 è stata creata la Corte penale internazionale che aggiunge altre ragioni di contrapposizione tra chi sostiene l’universalità del diritto internazionale e chi rimane legato alla regola della non-ingerenza, voluta dall’Occidente stesso dopo la Seconda guerra mondiale. La Corte crea problemi anche alla mediazione internazionale, sia quella istituzionale dell’ONU che quelle indipendenti, riducendo lo spazio di negoziato tra belligeranti con conseguenze che paiono talvolta favorire la continuazione dei conflitti. In certi casi la minaccia di adire alla Corte è stata usata dalla parte istituzionale di una crisi per minacciare l’altra, divenendo un elemento divisivo piuttosto che un contributo alla soluzione. Tra la vecchia, ancora valida, dottrina della non-ingerenza negli affari interni di un paese (in base alla quale furono condannati i criminali di guerra nazisti a Norimberga nel capo di accusa n. 1 sulla guerra di aggressione), e quella più recente dell’intervento umanitario o della giustizia internazionale, è difficile districarsi. Dopo il crollo dell’URSS, la società civile internazionale aveva creduto di scoprire nei diritti umani – come sostiene Ignatieff – “una causa al di sopra della politica”, degna di essere abbracciata a costo di scontrarsi con il criterio assoluto della sovranità degli Stati che fino a quell’epoca aveva trionfato come regola unica. Tuttavia, con una certa secchezza, Tzvetan Todorov sostiene che “l’ingerenza distrugge lo Stato nazionale (ma) gli abitanti di un paese godono di molti più diritti come cittadini di uno Stato che come appartenenti alla razza umana. Diritti dell’uomo non garantiti dalle leggi di uno Stato non servono a molto […] l’anarchia è peggio della tirannide […]”. Da un decennio si parla anche di “guerra umanitaria” cioè di conflitto a fini umanitari, con una chiara contraddizione in termini, per salvare una popolazione in pericolo, come è stato fatto per certi versi in Libia o in Iraq. La “guerra umanitaria” ha reintrodotto concettualmente la possibilità di fare una “guerra giusta”, dottrina che pareva ormai superata, facendo compiere alla coscienza internazionale un passo indietro piuttosto che un ulteriore avanzamento sulla via del ripudio della guerra. Su tale questione la discussione si è riaperta con il conflitto in Ucraina: esiste secondo alcuni la possibilità di considerare quella guerra come giusta perché difensiva e posta in relazione ad un’evidente aggressione. Tuttavia, seguendo l’insegnamento di Papa Francesco nella Fratelli tutti, credo si possa dire che ogni conflitto è ingiusto e ingiustificabile. Il Papa esprime con decisione l’esperienza di umanità della Chiesa: “Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come l’ha trovato”. Sfigura il volto dell’umanità. Lo dicono due guerre mondiali. Lo gridano i gravi conflitti in corso. Mai la guerra rende il mondo migliore. È la verità della storia, tuttavia, assistiamo a una diffusa “perdita del senso della storia”, dice l’enciclica. Se ne smarrisce la memoria nel presentismo egocentrico o in contrapposizione esacerbate. Le parole del Papa ci scuotono da un sonnambulismo che scaturisce dalla sola logica del conflitto: la guerra –scrive – “è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male”.
Oggi si affievoliscono purtroppo le tre grandi linee di tendenza che hanno animato dal secondo dopoguerra il dibattito internazionale mirato alla messa al bando della guerra: il disarmo (vediamo come i trattati di quello nucleare siano stati denunciati quasi tutti, rendendo il mondo più pericoloso); l’introduzione di norme universali sulla base dei diritti umani (le critiche al diritto umanitario sono sempre più frequenti) e la prevenzione della guerra tramite nuove forme di diplomazia e di mediazione. Su quest’ultimo tema direi che sono stati fatti dei passi avanti ma la riabilitazione della guerra per risolvere le contese infragilisce il contesto generale.

La lezione della Chiesa

Il discorso sulla pace o e sul rifiuto della guerra per ragioni umanitarie ha ricevuto un importantissimo impulso e sostegno dalla posizione della Chiesa cattolica e dei pontefici del Novecento che, da Benedetto XV durante la Prima guerra mondiale a Pio XII di fronte alla Seconda, fino alle più recenti posizioni di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Francesco, hanno condannato la guerra in quanto tale, portando alla sua totale delegittimazione morale. Nel 1963 Giovanni XXIII aveva scritto la Pacem in terris indirizzandola per la prima volta a tutti gli uomini di buona volontà e non solo ai cattolici. Il Papa stesso era intervenuto in maniera decisiva nella crisi di Cuba e aveva iniziato una forma di disgelo con i sovietici. Quell’episodio è tornato alla ribalta oggi a causa del rischio di utilizzo dell’arma nucleare minacciato dalla Russia in Ucraina. L’insegnamento dei Papi è segnato da una crescente domanda di pace: Benedetto XV, durante la Prima guerra mondiale parlò di “inutile strage”; Giovanni Paolo II definì la guerra una “avventura senza ritorno”. È un insegnamento che ha rappresentato in questi anni una grande alternativa culturale. Nella Chiesa la convinzione che la guerra sia un’avventura senza ritorno è maturata nell’esperienza di tanti mondi dolorosi segnati da essa: vedere da vicino realtà di guerra e di conflitto, con tutta la loro drammaticità, viverla sulla propria pelle in tanti luoghi del mondo, mettersi dalla parte delle vittime e dei civili. È ciò che la Chiesa sente profondamente in Ucraina e anche a Gaza. La coscienza della Chiesa cattolica si è andata chiarificando progressivamente, ma non si è mai trattato di una strada facile. L’appello contenuto nella Nota del 1917 di Benedetto XV non venne ascoltato: molti cattolici ed importanti ecclesiastici erano completamente immersi nel clima patriottico di quegli anni e la respinsero (sui giornali francesi si parlava di “Pilato XV”). Così accadde anche durante il secondo conflitto, per scongiurare il quale Pio XII aveva detto: “nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra”. Come sappiamo la polemica successiva sui “silenzi di Pio XII” nasce anche dalla posizione imparziale e apparentemente non schierata del pontefice. Successivamente anche durante le guerre coloniali, in varie occasioni scoppiarono polemiche sulla linea della Chiesa: molti fedeli europei rimanevano legati ad una visione nazionalistica passionale. Progressivamente è emerso tuttavia quanto la guerra, e la guerra mondiale in particolare, fosse un terreno invivibile per la Chiesa. In qualità di “internazionale di popoli diversi”, la Chiesa non può ammettere il conflitto che le appare sempre una guerra civile: dal suo interno matura progressivamente un’esigenza più vasta che abbraccia tutti i popoli e tutte le religioni, con un anelito a preferire sempre la pace. La Santa Sede, istanza sovranazionale, dà voce a tale coscienza; si attiva a livello umanitario; diviene una centrale per la ricerca e la salvezza dei rifugiati (si pensi alla sua attività durante la Seconda guerra mondiale) e poi si allarga a tanti altri terreni umanitari, fino a giungere alla mediazione. Il papato del XX e XXI secolo è intimamente legato all’impegno per la pace tanto da trasmetterne il valore e riversarne il contenuto nel dialogo interreligioso iniziato – com’è noto – con il Concilio e che ricevette un forte impulso da Giovanni Paolo II mediate l’incontro ad Assisi nel 1986, proseguito in seguito dalla Comunità di Sant’Egidio. Pace e dialogo diventano così un tutt’uno, connesse assieme all’aiuto umanitario. Giovanni Paolo II, papa dalla profonda sensibilità geopolitica, individuò nelle “transizioni pacifiche” il metodo cristiano di risoluzione dei conflitti. Accettò per la Santa Sede un ruolo di mediazione sul canale di Beagle tra Cile e Argentina; intervenne personalmente nelle transizioni democratiche del Cile e delle Filippine e sostenne le attività di mediazione della Comunità di Sant’Egidio in Mozambico, in Africa e in America Latina, come posso anche testimoniare personalmente. Il tramonto della guerra fredda divenne per lui – e per molti dopo di lui – l’occasione per riflettere su un nuovo sistema di relazioni internazionali che ancora stiamo cercando e che in questi mesi sembra quasi un miraggio.

Un nuovo multilateralismo
Dopo le grandi manifestazioni per la pace del 2003 contro le guerre del Golfo, progressivamente la sensibilità pacifista e umanitaria è parsa scemare, inabissandosi: nessuno ha manifestato contro le guerre di Siria o di Libia, per non parlare di quelle africane. Oggi davanti ai conflitti in corso e alla rottura del dialogo internazionale, vediamo con quanta urgenza il mondo avrebbe bisogno di un rilancio del multilateralismo in un’epoca nella quale le diseguaglianze aumentano e molti stati diventano fragili al loro interno o addirittura falliscono. Ma la fiducia nell’efficacia del dialogo multilaterale è venuta meno. Il britannico Mark Leonard, direttore dell’European Council on Foreign Relations, ha chiamato la nostra epoca the Age of Unpeace: intraducibile in italiano perché non vuol dire propriamente “senza pace” ma “che disfa la pace”, come una tela di Penelope che si scompone. Si sente parlare di brutalizzazione delle relazioni internazionali, di corsa alla potenza e di competizione di modelli contrapposti. Nell’età di unpeace si esclude in partenza che la pace globale possa reggere. Credo che ciò non sia vero. Il desiderio di pace è molto forte tra i popoli, tra la gente semplice (è un’attesa della povera gente avrebbe detto La Pira), tra le donne, le madri, i poveri. Il clima bellicista è una nebbia emozionale creata ad arte, per confondere lo spirito dell’opinione pubblica e far apparire la guerra come unica possibilità. Ma la guerra è una questione troppo seria che necessita di una lucida, allarmata e urgente riflessione: cosa fare per uscirne, per ricreare quel quadro multilaterale che ci protegga? Come ha più volte dichiarato il Presidente Mattarella, noi italiani abbiamo la nostra Costituzione repubblicana basata sul ripudio della guerra, che spinge a cercare sempre canali di dialogo anche quando infuria la battaglia, pur senza mettere in dubbio le appartenenze e alleanze internazionali. Tale sensibilità è figlia di una cultura politica democratica e trasversale. Si tratta della nobile arte del dialogo: non è ingenuità ma realismo che immagina il domani già da oggi cioè cerca la luce in tempi oscuri. Sempre si può fare qualcosa per la pace: come disse Miep Gies, la segretaria che nascose la famiglia Frank ad Amsterdam: “anche una normale segretaria, o una casalinga, o una adolescente possono accendere una piccola luce in una stanza buia”. È lo spirito fattivo che deve molto all’umanesimo europeo costruito nei secoli il quale mira alle tattiche elettive per risparmiare il sangue. Pensare ad un domani di pace è la caratteristica delle democrazie: esse non vivono di guerra come i regimi autoritari, non è il loro terreno. Mentre tutto minaccia di bruciare attorno, occorre mettere assieme le migliori energie ed intelligenze per trovare una via di uscita ridando fiducia al dialogo e al negoziato, senza che tale sforzo venga considerato scandaloso. Preparare la pace già ora perché il domani sia stabile. Ce lo chiedono le vittime di queste guerre: le vittime ucraine ma anche il grido soffocato di tanti russi che non possono parlare, le vittime del pogrom del 7 ottobre e quelle di Gaza. La società civile internazionale e le sue innumerevoli organizzazioni e associazioni, cerca di farsi ascoltare in tale difficile contesto, introducendo il concetto di “sicurezza umana” da affiancare a quella della sicurezza degli Stati. Ci chiediamo ad esempio come preservare la sicurezza di Israele senza mettere a repentaglio quella di tanti palestinesi ormai senza casa e senza futuro. Tale tentativo riceve certamente il sostegno delle Nazioni Unite e degli organismi internazionali (oltre 200, quindi più numerosi degli Stati membri) anche se ora sono molto criticate proprio per la loro posizione imparziale. D’altronde ci chiediamo: come potrebbero fare diversamente?

Democrazia
In Italia abbiamo avuto un’anticipazione di tale dialettica con la contrapposizione tra Stato e società civile sulla salvezza nel mare a sud di Lampedusa dei migranti, una sfida tra navi militari, interessi nazionali e imbarcazioni delle ONG che rivendicano il loro diritto a salvare (cioè “proteggere”) qualunque vita umana senza distinzioni. Le polemiche su tale contesa proseguono ma la loro natura non è diversa da quelle che infuriano a Gaza con le Nazioni Unite. In altre parole: in una situazione di emergenza (come una guerra o una crisi umanitaria o un afflusso di rifugiati) a cosa occorre dare priorità: alla difesa della vita umana o ai pur legittimi interessi di uno Stato? Va detto che dal punto di vista del diritto internazionale le ONG stanno difendendo l’ultimo pezzo di multilateralismo ancora operante. C’è da scommettere che un domani ciò andrà a vantaggio degli stessi Stati che oggi le contrastano. È necessario quindi un salto di intelligenza: opporre sovranità alla giustizia internazionale e interesse nazionale a impegno umanitario conduce solo in un vicolo cieco. Questioni simili non si sciolgono con formule riduttive o imposizioni esterne che risulterebbero fallimentari perché attraversano culture, sensibilità e storie diverse. La questione dei diritti dell’uomo è percepita da dissimili punti di vista e divide da sempre la comunità internazionale. La democrazia è legata a valori universali che le procurano una forza emancipatrice. Tuttavia chi crede nella democrazia si sottopone liberamente e volontariamente agli obblighi morali che ne derivano e che le istituzioni devono garantire. Com’è noto la storia dell’avvento della democrazia in Europa non è stata lineare: ha avuto bisogno del consenso dei cittadini che in alcuni casi è giunto tardi, dopo amarissime esperienze. Pensare di forzare i tempi in altri contesti non è saggio, anche se le violazioni dei diritti umani non possono mai essere tollerate. La transizione verso la democrazia può essere lunga e accidentata, fatta di vari elementi che lentamente si conciliano, legata all’esperienza concreta di un popolo. Così come la pace si comunica, la democrazia non si impone ma si compone. E mai come in questa stagione dobbiamo farla crescere, difenderla, appassionare, fare crescere la consapevolezza dei rischi dell’indebolimento della democrazia e la necessità di uno spirito costituente che la rafforzi.

 

30 Aprile 2024

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